morte accidentale di un Logotheta
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(pubblicato da Edizioni ETS, Pisa, 1998 - esaurito)




San Miniato - affresco in palazzo pretorio, raffigurante la Rocca


1. Pier delle Vigne : un improbabile suicidio

Come dal verdeggiante mar di Svevia (l’alta valle del Danubio) emerge il colle di Hohenstaufen, così quello di San Miniato domina la piana dell'Arno.
Sulla vetta stanno i resti della fortezza imperiale di Federico II. La solitaria torre, strabiliante miscuglio di architettura siciliana e mattone toscano, esibisce sulla cima moncherini di colonne: sembrano dita protese a pizzicare un angelo in volo.
Non è autentica. Fu distrutta nottetempo nel '44 dai tedeschi in fuga. Ma l'orgoglio sanminiatese, per cristallizzare la memoria di quella sanguinosa notte di San Lorenzo, la rivolle dov'era e com'era. Non nel suo aspetto originale, col tozzo colonnato sul quale poggiava la loggia sommitale, come appare nel quattrocentesco affresco in palazzo pretorio ed a cui certo si ispirò Arnolfo di Cambio nel coronare di merlatura ghibellina (ironie della storia dell'arte) la torre di Palazzo Vecchio nella guelfa Firenze.
No! San Miniato rivolle la sua torre com’era quella notte, con i moncherini sulla cima: facendo così inconsciamente di un edificio medioevale un monumento al proprio martirio.

La torre è aperta e visitabile: grazie alla disinteressata passione di un pensionato si può salire per le sue ripide interminabili scale in legno fino alla cima, sbucando poi per angusta chiocciola sulla terrazza, da cui si coglie un eccezionale panorama della valle dell'Arno.
Ma non è meno interessante fermarsene alla base, ad ascoltare di memorie di guerra e di antichi fatti, di storie vissute e di molte altre tramandate, nelle quali infine s’infiltra, tra versi danteschi, l'ombra del colto e gentile Imperatore siciliano e la triste sorte del suo fedele amico e ministro, Pier delle Vigne...

Questi era nato vicino Capua sulla fine del 1100 da non ricca famiglia. Con studio ed ingegno arrivò alle più alte cariche dello Stato. In quei tempi difatti, nella corte di Palermo, cominciava a vacillare un ordine basato sul titolo acquisito per nascita; il diritto feudale e quello canonico cedevano il posto ad una concezione dello Stato laico e sovrano ed a Napoli sorgeva l’Università destinata a formarne i funzionari, in contrapposizione a quella di Bologna, che laureava canonici.
Nel 1249 Pier delle Vigne, altrettanto bravo nel poetare in volgare quanto nel formulare testi legali in un latino piano e scorrevole, era il Logotheta (oggi si direbbe portavoce) di Federico e Protonotaro del Sacro Romano Impero. Per motivi ancor oggi rimasti inspiegati, senza preavviso l’Imperatore lo fece arrestare a Cremona.
Da lì, al seguito della corte, venne tradotto prima a Borgo San Donnino (l’attuale Fidenza) e poi nella fortezza di San Miniato al Tedesco, dove fu accecato. L’epilogo di questa vicenda fu la sua morte, avvenuta nell’aprile di quel 1249; le più comuni fonti sono concordi nell’attribuire a Pier delle Vigne un estremo gesto di disperazione: privato dell’onore, dei beni e della vista, si sarebbe tolto da sé anche la vita, sbattendo volontariamente la testa con forza contro le pareti della sua cella in San Miniato.

Questa la tradizione comune.
In questi termini la racconta l’anziano custode del maschio.
Peraltro, il fatto è autorevolmente confermato dal celebre passo di Dante, che nella Divina Commedia, Inferno, Canto XIII (girone dei suicidi), così fa dire a Pier delle Vigne:
    Io son colui che tenni ambo le chiavi
    Del cor di Federigo, e che le volsi,
    Serrando e disserrando, sì soavi
    Che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi

e più oltre, in merito alla sua morte:
    L’animo mio per disdegnoso gusto,
    Credendo con morir fuggir disdegno,
    Ingiusto fece me contra me giusto.

Versioni simili si leggono nei molti e recenti studi sul contesto storico del regno di Federico II. Da questi risulta con certezza che Pier delle Vigne sia stato riconosciuto colpevole di un grave ma imprecisato delitto (tradimento? concussione?) mentre Federico era a Cremona, nel febbraio del 1249.
Non si hanno tracce documentali di un processo a suo carico, ma gli autori concordano sulla condanna all’accecamento e sulla sua morte in aprile, durante lo spostamento della corte verso Pisa. Le fonti primarie sono in genere annali e cronache contemporanee.

Sulle cause dell’arresto si sbilancia Abulafia, che così commenta le terzine dantesche:
    “Secondo il poeta fiorentino fu l’invidia dei contemporanei a distruggerlo; le sue cristalline doti di governo gli alienarono le simpatie di coloro che non riuscivano a reggerne il passo”.
Non è certo possibile accertare oggi l’innocenza o la colpevolezza di Pier delle Vigne.
Ma sono stato comunque spinto ad indagare sulle circostanze della sua morte. Difatti, a scomporre un quadro di certezze storiche mi si insinuò un'affermazione letta su un testo divulgativo di storia pisana.
Caciagli, nel narrare fugacemente del periodo Federiciano in Pisa, si sofferma sull'episodio di Pier delle Vigne per scriverne che, mentre veniva condotto verso il quartiere di Chinzica (l’attuale Mezzogiorno) per essere esposto alla gogna, Pier delle Vigne
    “si gettò a capofitto di sotto al mulo, battendo in malo modo la testa”.
E continua dicendo che,
    “soccorso, morì nell'ospedaletto di Sant'Andrea in Barattolaia e fu sepolto nella chiesa attigua”.
Sebbene il suicidio per disarcionamento dalla groppa di un mulo mi sia sembrato tecnicamente ancor meno praticabile del disperato gesto contro un muro, quest’ultima affermazione che fornisce una traccia sull’ubicazione degli eventuali resti in Pisa mi ha stimolato nel condurre una ricerca.



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curiosità: Piero o Pietro?
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